Dopo mesi molto intensi, pieni di interrogativi, abbiamo concepito un pensiero condiviso: non esiste solo una, ma tante, troppe SLA. E se finora, nella ricerca di una cura, fosse stato adottato l'approccio sbagliato?
Un approccio prettamente farmacologico, fatto di trials applicati in modo indiscriminato a una malattia complicata dai mille risvolti, come la SLA. Che si sia fatta di tutta l'erba un fascio? Forse un'altra opzione non esisteva.
Perché quando si tratta di una malattia rara, di poche vite, di persone che - nel giro di pochi mesi - tra una visita mensile e l'altra non corrispondono più ai criteri vitali richiesti per la partecipazione a una sperimentazione clinica, in questi casi non si può cercare il pelo nell'uovo.
Un approccio selettivo è quasi impossibile, soprattutto quando i casi di familiarità si contano sul palmo di una mano, quando la maggioranza delle persone che ha conosciuto direttamente quale sia la quotidiana lotta di un malato di SLA, sfugge alle indagini genetiche e, per evitarsi egoisticamente un'ipotetica condanna, toglie materiale umano essenziale alla ricerca. Rallentando, così, il corso delle cose.
La SLA di Rosetta non é stata uguale, né simile, in niente, a quella della sorella, del nipote. Ogni SLA si manifesta con modalità e tempi non sovrapponibili neppure tra madre e figlio. Figuriamoci studiare l'efficacia di un farmaco contemporaneamente su un SOD1, su un C9, o un TARDBP come nel nostro caso.
Forse i nostri sono puri vaneggiamenti di persone ferite, o forse conclusioni a cui siamo giunti provando a guardare - con occhio esteriore - un qualcosa che ogni giorno ci pugnala dentro.