Qualche giorno fa alle 23:30 italiane, alle 7:30 australiane, io e Sandra ci siamo unite a un incontro organizzato in Argentina dalla Fundación Esteban Bullrich. L'appuntamento era destinato a parlare di SLA in famiglia.
Io e Sandra non sapevamo se avremmo mai trovato il coraggio di raccontarci. Avevamo deciso di connetterci accettando la sfida di essere insieme, a distanza, come parte di una stessa storia.
Il momento di accendere il microfono è arrivato da sé. Non era più possibile tacere.
Le parole, in spagnolo, sono arrivate cariche di emozione come se parlassi a me stessa.
Volevo si sapesse quanto ci si sente disgraziati a essere membri di una famiglia con SLA genetica. Poi, però, il messaggio è arrivato potente ma diverso. Dinnanzi ad altri malati come noi. Dinnanzi a mogli e mariti che diventano caregivers e hanno bisogno di sentirsi meno soli.
Ho ricordato mia nonna che nel 1993 è stata la prima ad avere una diagnosi certa di SLA. Tutti prima di lei avevano avuto una malattia senza nome.
Ho pensato a Valeria che nel 2019 é stata la prima a fare un'indagine genetica conclusiva: Tardbp43.
Prima di lei solo Gladys in Argentina era stata sottoposta a tale esame, ma il gene non era stato trovato.
Ho pensato che suo figlio Santiago, se vorrà, potrà essere il primo a riprodursi consapevolmente. Noi ci siamo tutti riprodotti senza pensare alla responsabilità che ci toccava.
Ho pensato a tutti quei numerosissimi parenti che non hanno avuto nessuna forma di supporto, né logopedia, né fisioterapia, né cibi adatti alla disfalgia. Allora qualcosa é pur sempre cambiato.
Questo cambiamento dobbiamo almeno provare a vederlo senza ignorare tutto ciò che, nel più assoluto dolore, ancora non siamo riusciti a costruire.
Rompere il muro del silenzio è un primo passo.
Per generazioni i nostri avi hanno taciuto, ora è tempo di gridare ed esigere.